Il Papa, il lavoro e i robot: L’economia politica di Jorge Mario Bergoglio (Pubblicato su Avvenire, 29 giugno 2017)

Parlando ad una platea di lavoratori, imprenditori e disoccupati nel distretto Riparazioni navali di Genova, Papa Francesco non ha perso l’occasione di parlare al cuore delle persone condividendo, al tempo stesso, una riflessione sulla società contemporanea ricca di spunti e sollecitazioni. Indirizzandole, come spesso gli accade, sia all’interno che al di fuori del confine dei credenti. Questa volta, il Vescovo di Roma ha affrontato il grande tema sollevato dalla crisi globale: la qualità e il futuro del lavoro.

Al lavoro Francesco ha dedicato diversi passaggi, come quando ha spiegato la differenza tra imprenditore e speculatore, o come quando ha affermato che “l’accento sulla competizione” nell’impresa non è soltanto un “errore cristiano”, ma è anche un “errore economico” perché “l’impresa è prima di tutto cooperazione, mutua assistenza, reciprocità.” Con questo Francesco riafferma il senso originale della parola “economia”, ovvero (dal greco) “gestione della casa comune”. Nelle sue parole, il lavoro non è solo un mezzo per poter consumare ciò che non si può produrre da sé. È anche il “centro di ogni patto sociale”, e se manca, oppure se “sfrutta, schiaccia, umilia, uccide” allora il patto sociale si rompe.

È una critica dirompente della politica economica degli ultimi 30-40 anni che, a prescindere dal colore politico dei governi, ha nutrito l’idea che un po’ di disoccupazione fa bene, sia perché non si può dare lavoro a tutti, sia perché il rischio di perdere il posto rende i lavoratori più malleabili ed efficienti, sia perché la concorrenza tra disoccupati abbassa il salario e impedisce l’inflazione. Gli economisti la chiamano “disoccupazione naturale”. Francesco la chiama “ricatto sociale”. Una società dove mancano le opportunità di lavoro per tutti è una società infelice, perché il lavoro è dignità, auto-stima, senso di valere qualcosa, e la disoccupazione semina infelicità, malattia, crimine, terrorismo.

A rafforzare le parole di Bergoglio aggiungerei questo: che la disoccupazione ha la brutta abitudine di far sembrare bello ciò che non è. Aprire una fabbrica che distrugge il territorio o inquina l’aria suscita meno scrupoli e riserve se è in grado di assorbire un bel po’ della disoccupazione di quel territorio. E anche la guerra appare meno orribile se crea posti di lavoro. Dunque, la disoccupazione ha anche questo sgradevole effetto: distorce i nostri termini di riferimento con conseguenze drammatiche anche per la civile convivenza tra i popoli e l’ambiente.

Abbiamo vissuto un lungo periodo in cui abbiamo pensato che in una società per sua natura imperfetta un po’ di disoccupazione fosse inevitabile. Oggi, si affaccia un altro modo di vedere ancora più insidioso. Ed è la diffusa convinzione che il progresso tecnologico e la robotizzazione dei processi produttivi significhi che il lavoro sta scomparendo. Passiamo così da un’epoca in cui la piena occupazione era ritenuta possibile ma sconsigliabile ad un’altra epoca in cui la piena occupazione è ritenuta semplicemente impossibile.

Su questo errore l’umanità è recidiva. Ai tempi della meccanizzazione del lavoro della terra, così come ai tempi del progresso tecnico della produzione manifatturiera, ci si è fatti la stessa domanda. Cosa mai potremmo produrre e consumare più di quanto consumiamo oggi? Alla stessa domanda, oggi, non si sa rispondere altro che immaginare un mondo dove alcuni lavorano (i più istruiti) e gli altri ricevono un sussidio nella forma di un reddito universale per consentire loro di sopravvivere. Una soluzione solo apparentemente ragionevole, che in realtà rischia di creare un vuoto tra chi avrà la possibilità di esprimersi attraverso il lavoro e chi sarà mantenuto con un assegno che quando sarà speso finirà nelle tasche di chi lavora, accrescendo la distanza tra chi lavora e chi viene mantenuto.

Su questo punto, Francesco non avrebbe potuto essere più chiaro: “Bisogna guardare senza paura alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’!”

Di fronte alla minaccia dei robot non siamo affatto disarmati, a condizione di sapere superare i limiti delle inconcludenti politiche dell’occupazione di prima e dopo la crisi. Ben più utile del ‘reddito universale’ sarebbe allora un programma di lavori di transizione retribuiti a un reddito minimo ma dignitoso, a cui abbiano accesso tutti coloro che aspirano a conservare e sviluppare le proprie capacità in vista di nuove opportunità nel settore privato o pubblico. Se il ‘reddito universale’ rappresenta la resa all’impossibilità di un lavoro per tutti, un programma di lavoro di transizione insegue lo scopo opposto di offrire alle persone l’opportunità di continuare a sentirsi parte del mondo del lavoro in attesa di ritrovare un nuovo ruolo e una nuova collocazione.