Keynesiani all’italiana?

Il Corriere della Sera (8 giugno 2015) ha dedicato due pagine (“Keynesiani all’italiana”, di Paolo Mieli) ai tanti errori della politica della spesa pubblica in Italia. Anche in questa occasione, purtroppo, prevale la confusione tra qualità della spesa, equità dell’imposizione fiscale e dimensione del debito pubblico. Ogni seria valutazione di ciascuna di queste tre questioni andrebbe compiuta separatamente, ma il Corriere riconduce la questione esclusivamente alla corsa del debito pubblico.

Ed è davvero un peccato che i critici della gestione della cosa pubblica informino male i lettori del Corriere, inducendoli a pensare che un economista della levatura di Keynes (l’uomo che nel 1919 comprese lucidamente come il debito tedesco imposto per le riparazioni di guerra avrebbe rapidamente causato altre e più gravi rovine nel Continente) sia stato poco più che l’ispiratore di figure modeste della politica nostrana, e che gli arcigni censori del debito pubblico si debbano invece collocare qualche spanna al di sopra dell’economista di Cambridge.

Tre sono i punti deboli della critica del Corriere alla “corsa dissennata al debito pubblico”. Il primo è che un elevato debito pubblico non è affatto lo specchio di un aumento incontrollato del peso dello stato. In Giappone, ad esempio, il debito pubblico è quasi il doppio di quello italiano, eppure il peso del settore pubblico sul Pil è la metà di quello italiano. I due fenomeni non sono correlati e non vanno confusi.

Il secondo è che il debito pubblico è insostenibile in due casi: quando confligge col vincolo di un tasso di cambio fisso (con l’oro, col dollaro, o col marco tedesco, come fu per l’Italia pre-euro) e quando stimola una crescita così impetuosa dell’occupazione da creare pressioni inflazionistiche. L’attuale condizione dell’economia italiana non appartiene a nessuno dei due casi, ed è piuttosto il riflesso delle scelte dell’architettura istituzionale dell’Eurozona, che settori sempre più ampi della politica europea giudicano oggi inadeguata.

Il terzo è che al debito del settore pubblico corrispondono, contabilmente, i risparmi del settore privato. Non può dunque sorprendere che nei paesi dei popoli comunemente considerati risparmiatori (Italia e Giappone) il debito pubblico sia più alto. Nel nostro Paese, come ci informa la Banca d’Italia, la ricchezza finanziaria netta del settore privato è all’incirca duemila miliardi di euro, che è il valore del debito pubblico.

La questione del debito dello stato è troppo delicata, soprattutto oggi, per poterla trattare superficialmente, tralasciando le tre considerazioni sinteticamente descritte qui sopra. Per lavorare a soluzioni efficaci, occorre porre il problema in una prospettiva diversa e più completa